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costanzabiasibetti

Capitolo 4 - I figli della Regina

Il custode delle api


Soprattutto, le api non avevano figli. Nessuna di loro.

Regina lo metteva in chiaro fin da subito, dal primo “colloquio” con le sue dipendenti: quello non era un mestiere per madri. Il suo era un codice ferreo di condotta, che le altre pensavano fosse un lascito ereditario dal suo paese d’origine, la Bosnia.

In realtà non proveniva da lì. Quasi nulla, di lei, proveniva da lì, se non i tratti del volto sottile, le striature di cenere sui capelli, l’eterna giovinezza che un giorno forse si sarebbe spenta, tutta in un colpo solo, come finiscono quelle serie tv che non guarda più nessuno, in 50 minuti o poco più.

Non amava raccontare di sé e non conservava nessun ricordo del passato (nessuna foto, regalo nascosto in un cassetto o biglietto d’auguri); sperava forse di lasciarsi alle spalle un dirupo di vuoto, e che potesse essere riconosciuta solo per il fatto di averlo saltato. Ma come spesso accade, il silenzio è molto peggio della verità e le api avevano immaginato per lei una sceneggiatura di amori contrastati, figli dispersi e profughi di guerra. Anche se avessero casualmente identificato alcune delle sue ferite, lei non l’avrebbe mai ammesso.


Adriano Cantoni bussò alla porta prima di entrare nell’appartamento all’ultimo piano. Regina era acciambellata sul divano, sembrava un gatto, intenta a massaggiarsi con una mano i piedi, stanchi dei tacchi.

- Ti preparo qualcosa? - le disse lui, togliendosi la giacca e gettandola sopra uno sgabello.

- No, tranquillo. Temo che dovremo ripartire tra poco. Mi ha appena chiamato Eustachi.

- Oh no, è già ora?


Adriano crollò sul divano accanto a Regina, prese i suoi piedi tra le mani e iniziò ad inciderli sulla pianta con i polpastrelli.

- Ma che diavolo, quest’anno hanno anticipato per una questione di equinozi mi pare. Se non ci pagasse così tanto, cancellerei il suo numero dalla rubrica.

- Eh dai, è simpatico quando vuole. Ti ricordi quando ti invitò a cena all’Elisium?

- Come dimenticarlo - Regina sorrise con gli occhi (perché con le labbra non sorrideva mai) - venne a prendermi in pompa magna e poi non volle mangiare nulla perché secondo lui “c’era un’energia negativa”. Mi chiedo solo se sia nato così o se lo sia diventato nel tempo.


Il tempo era una variabile che, nella loro vita, aveva sempre giocato per la squadra avversaria.

- Reg, posso chiederti una cosa?

Adriano bloccò il movimento delle mani, come se quello che stava per dire fosse troppo importante per non essere l’assoluto protagonista di quella scena. Lei annuì.

- Anche per Mosca valeva la vostra regola dei figli? Litigaste per me?


Contrariamente a quanto Adriano si sarebbe aspettato, Regina rilassò le spalle e sospirò.

- No, quando mi disse che era incinta, ero solo molto felice. Ma sai, eravamo io e lei. Padrone di noi stesse e in grado di badare l’una all’altra. Tu diciamo che hai rotto le uova nel paniere, non era facile fare il nostro lavoro mentre ci gattonavi tra i piedi. Fu Mosca a proporre la regola, quando tu per poco non ci rimettesti la mano inciampando sui resti del tavolo di vetro di una sala riunioni. Il capo dell’azienda si era azzuffato con uno dei soci e l’aveva letteralmente lanciato sul tavolo. La cosa era stata messa a tacere e così ci avevano chiamato in fretta e furia a sistemare quel casino. Saranno state le undici di sera. Mosca era sola a casa con te, Elio era ad un seminario o a qualche diavoleria delle sue. Ti portò con noi, e tu quasi ci rimettevi le penne. Dovemmo correre in ospedale con te che perdevi sangue come una fontana. Mosca disse che non ti avrebbe più portato e che nessuna di noi avrebbe più messo in pericolo cuccioli e bambini.

- Vale anche per i cani questa regola?

- Sì, ma non per i gatti. I gatti sono autonomi, possono sopravvivere anche senza madre. I figli e i cani, invece, no.


Il legame tra una madre e suo figlio è qualcosa di tangibile. Profuma. Suona come un richiamo di guerra prima della battaglia. Ha a che fare con la terra, con la farina, con il bisogno di mettere i piedi nell’acqua del mare quando la sabbia scotta.

La legge del ventre è scritta nella carne, è illogica ed è impossibile approdare filologicamente al suo archetipo, perché non vi sono errori. Passa da madre a madre, copiando eternamente se stessa.

Quando Mosca si accorse di essere incinta, l’inquietudine che era sempre fluita nelle sue vene, con un gorgoglìo si tacque. Tutto quello che era stato prima finì e fu come se avesse smarrito i documenti e si iscrivesse di nuovo all’anagrafe con un nome nuovo: non era più Mosca, era madre. E si chiese se avrebbe potuto essere anche Madre Mosca, essere femmina ed essere anche madre, se quella creatura che si impiastricciava dentro di lei di tenerezza e di sangue le avrebbe permesso di continuare a danzare.












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