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costanzabiasibetti

Capitolo 3 - La Grammatica dell'alveare

Il custode delle api


L’alveare si chiamava così perché le finestre della palazzina, in tutti i suoi cinque piani, erano a forma di esagono. Era diversa da tutti i palazzi che la circondavano, come una scolara senza grembiule. Si specchiava su un cortile privato, dove ai tempi d’oro ai condomini era vietato lasciare le auto perché la domenica c’era l’esposizione e per le macchine non c’era posto. Tutti scendevano con i propri ninnoli, si apriva il grande portone e la gente entrava a curiosare, qualcuno a comprare vecchi servizi da tè, vinili, quadri, cappotti di montone. A mezzogiorno, tutto veniva stipato nello scantinato al piano terra e restava lì, sepolto come un segreto nelle viscere, fino alla domenica successiva.

Quello era stato il motivo per cui Regina e Mosca avevano scelto proprio quel condominio per dare vita al loro alveare. Al tempo, le finestre non erano ancora esagonali, ma era come se lo fossero.


Ora il cortile brulicava di auto parcheggiate talmente vicine le une alle altre che l’unica soluzione per arrivare alla postazione di guida era salire dal bagagliaio. Consuelo parcheggiò nel posto riservato alle api, il più grande tra i parcheggi del cortile. In una passata riunione di condominio, un nuovo arrivato si era azzardato a proporre di ridurlo per fare spazio ad altre auto. Regina gli aveva lanciato uno sguardo talmente furente che l’avventore aveva subito cambiato idea, passando alla mozione successiva.


- Noi andiamo su - disse Paola ad Adriano, che nel frattempo aveva parcheggiato dietro al furgone.

- Sì, vi scarico la spesa accanto all’ascensore.

- Grazie, custode nostro.

Paola schioccò un bacio sulla guancia di Adriano. Scaricò tutti i pacchi e solo alla fine la borsa di carta bianca che aveva posato sul sedile del passeggero.


Consuelo aveva atteso che tutte le altre e Regina fossero salite prima di avvicinarsi.

- Grazie, Adriano. Davvero.

- Cosa le mandi, stavolta?

- Dei guanti di lana. Guarda che meraviglia, mi sono fatta arrivare i gomitoli da quella vecchia che ho conosciuto al mercato. In Uruguay il tempo è sempre mite, ho provato a raccontare a Mariana che qui quando fa freddo nevica e ci mettiamo guanti e berretto di lana, e lei mi ha chiesto: “Mama cosa sono i guanti di lana?” e così volevo mandargliene un paio fatti da me. Syraz mi ha insegnato a lavorare con dei lunghi bastoni sottili, come si chiamano, ah sì, ferri! I ferri per la lana! e così le mando i guanti, anche se sono caldissimi, ma non importa perché così potrà vedere la lana...


Parlava e nel frattempo sfiorava i gomitoli di lana rosa, come accarezzandoli, come se fossero state le mani e i capelli e il volto della sua Mariana.

- Quando glielo dirai, Cons? Non ti caccerà mai.

- Non posso, Adri. Lo sai. Se Reg viene a sapere che ho una figlia mi butta fuori, le regole sono chiare e io rispetto le regole.


Si rabbuiò un poco, e discusse nella sua testa i capi d’accusa al tribunale della vita.

- Vado su. Grazie ancora che sei passato.


Era quasi mezzogiorno, ma sembrava che per loro fosse già sera.

Ognuna delle api aveva nell’alveare il proprio appartamento privato: nulla di sfarzoso, ma un posto decoroso in cui custodire i propri tesori, le più fortunate con un piccolo terrazzino per fare colazione al sole. La cucina era in comune, al secondo piano, attrezzata con cura ma negli anni un po’ trascurata. Assurdo che proprio le api, che di mestiere sistemavano disastri, non riuscissero a tenere immacolata una cucina sola. Veniva loro meglio riassettare palazzi, suite d’albergo, interi piani d’ufficio o platee di teatro: la loro tecnica valeva nel grande e, inspiegabilmente, non nel piccolo.


Il business era iniziato negli anni ‘90 e non aveva conosciuto stagioni aride, neppure dopo il fattaccio di Mosca; viveva di un passaparola elitario e di canali propri, invisibili ai più, sempre attivi e sempre necessari. Non importa che scempio si fosse consumato in quelle gabbie d’oro: le api avrebbero pulito e riportato tutto allo stato iniziale. Quando nel 2002, il dottor Corlieri, cliente affezionato delle api e commercialista di dinastia, aveva consigliato a Regina di mettersi al sicuro fondando una società di copertura, lei ci aveva pensato un po’ su per poi decidere che aveva ragione. Nominalmente, le api erano un’impresa di pulizie che contava tre dipendenti e tre consulenti esterni. Concretamente, le api erano nove donne tra i venti e i cinquant’anni, ciascuna specializzata in un’arte: c’era chi riportava i mobili al loro antico splendore, restaurando in poche ore le superficie devastate; c’era chi avrebbe lavato via le macchie dall’anima del diavolo usando qualche intruglio a base d’acidi e detergenti; c’era chi faceva magicamente funzionare le tecnologie difettose e chi cancellava le impronte, le manate, qualsiasi resto di origine organica potesse trovare sul suo cammino. C’era poi Paola, ingegnere gestionale, che pianificava le attività al secondo, incastrando le presenze perché in un giro di valzer il mondo tornasse al suo posto.


O almeno, che sembrasse così.












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