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Capitolo 21 - La vasca botte

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.

In dolce memoria di Marta Gori.




Capitolo 21

La vasca botte


La lettera si incastrò nella fessura sotto la porta, tanto che Alice dovette aprire del tutto il battente per riuscire ad estrarla.

Fino ad allora, il Tigre aveva rispettato la sua rabbia con rigore, senza degnarla di uno sguardo, senza chiederle udienza. Se si incontravano per puro caso sulle scale o in magazzino, lui manteneva lo sguardo fisso sui piedi, in religioso accorato silenzio.

Passava chiuso in magazzino la maggior parte del tempo, uscendone solo per raccattare qualcosa dalla dispensa e per salire su qualche cima, all’alba o al tramonto del sole.

La proposta di tregua, bianca come una bandiera, era arrivata ad Alice a 35 giorni dal ritorno del Tigre. Ed era tutta condensata in quella grafia ruvida e delicata allo stesso tempo, con lunghe ti ed enne impercettibili.


Lo so. Me ne sono andato come un idiota.

Sono sceso in paese e ho bevuto fino a stordirmi, tanto da non sentire il ruggito della tempesta. Il giorno dopo, mi vergognavo a tal punto di averti lasciata sola, che pensavo di aver perso di nuovo tutto.

Ti devo una spiegazione.

Tuo padre mi ha raccolto quand’ero solamente una cartaccia gettata nel fango del mondo.

Mi ha imboccato quando non riuscivo a mangiare, quando la vergogna per il mio passato (che lo so, l’ho capito dai tuoi occhi, tu già conosci) mi toglieva l’aria. Mi ha ridato una casa, qui sui monti, mi ha insegnato l’armonia degli elementi. Mi ha raccontato le antiche leggende, mi ha detto: “troverai un motivo per cui tornare a vivere”. E intanto vivevo.

Sai, mi sono vergognato di essere vivo per moltissimo tempo.

E’ una sensazione orribile, rigettare se stessi come arti in cancrena.

Tutti i tatuaggi che porto nel corpo sono la purificazione della mia anima. Tuo padre mi ha dato un nuovo nome e un nuovo compito, che non mi aveva specificato così bene evidentemente perchè io, dannato idiota, ho fallito in una cosa così semplice…

Non ti sono stato accanto, Alice.

Non c’ero quando hai dovuto ricostruire tutto di questo posto che non conoscevi eppure amavi così tanto.

Non c’ero. Ero a sanare le mie ossa tutte rotte, ho preso il primo treno e me ne sono andato. Ma non c’eri tu, nei sassi delle strade, nei cieli stranieri.

Ti chiedo scusa.

Sono ancora a pezzi, sai. Non trovo la pace. Il collante forse non bastava, al primo colpo mi sono rotto di nuovo. Ma con questo mucchio di pezzetti, ti chiedo scusa.


Tigre.


Alice lasciò cadere la lettera, che planò leggera sul letto. Uscì dalla stanza e nel sole del primo pomeriggio corse al magazzino.

Il Tigre non c’era, la porta del laboratorio era socchiusa.

Sopra il tavolo da lavoro, c’erano file ordinate di piccole botti, etichettate a mano.

Andromeda, American Pale Ale.

Cassiopea, Imperial Stout.

Cigno, Blanche.

Pegaso, Porter.

Balena, Lambic.

Cercò per tutte le stanze, finché Ralf non le indicò il profilo del Tigre, al largo del campo rosso. Stava trafficando con una vanga, lanciando terra in aria dall’interno della vasca verso l’esterno. Man mano che Alice si avvicinava, scorse i pini mughi trapiantati al limitare del bosco, lì dove il Tigre le aveva mostrato il rifugio per la prima volta. Lui le rivolgeva le spalle nude, la camicia annodata sui fianchi. Era arrossato per il sole che, nonostante settembre fosse ormai agli sgoccioli, batteva ancora con forza.

Alice si fermò poco distante.

Il Tigre non si era accorto della sua presenza, ma lei aveva riconosciuto nitidamente il Palazzo dell’Ovest con la Tigre a riposo, inciso con inchiostro nerissimo tra le sue scapole.


“Non sapevo che anche le stelle bevessero birra” - disse piano Alice.

Il Tigre conficcò il vanghetto nella montagna di terra. La fissò per un istante, con uno strano movimento muscolare della mandibola che forse nella sua lingua poteva essere un sorriso. La terra era ora abbastanza leggera per poter liberare la vasca semplicemente levando il telone di protezione: il Tigre ne prese i quattro lembi e con una spinta liberò il fondale. Il profumo di resina punse le narici.

“Sarà pronta per stasera” - disse solo, afferrando la cassetta degli attrezzi e dirigendosi al rifugio.



Uno sbuffo interminabile di vapore saliva denso verso il cielo stellato.

Sembrava provenire da un piccolo falò, ma non era lo sfiato del fuoco, bensì quello dell’acqua trasparente e del camino a legna, posto accanto alla vasca.

Alice aveva seguito le fasi del riempimento dalla sua finestra. Quando l’oscurità era scesa del tutto, verso le sette della sera, si incamminò a piedi scalzi sull’erba nuda.

“Ti va di provarla?”

La voce del Tigre era diversa, come se di colpo il peso dei suoi anni fosse scivolato via, lungo il crinale dei monti. Era impaziente, curioso ed emozionato.

“Secondo te sono venuta in accappatoio perchè volevo lanciare una nuova moda?”

Alice rispose in inglese. Con lui era stata la Alice dello Yorkshire e ora si sentiva libera di essere la Alice del Rifugio Alma Bevilacqua. L’aveva chiamato così.

Con la mano nella mano del Tigre, salì le scalette fino al bordo e saggiò l’acqua con la punta delle dita. Era caldissima.

Si immerse piano fino alle spalle e lasciò che il suo corpo, con un brivido, si adattasse a quel calore inusuale e straordinario.

Sopra di lei, sopra di loro, iniziarono a brillare le stelle.

“Vieni, Tigre, vieni anche tu” - disse Alice, non distogliendo lo sguardo dalle costellazioni.

Il Tigre lasciò cadere per terra i vestiti ed entrò nella vasca accanto ad Alice.

Sembrava impacciato e così piccolo. Lei gli fece posto. Gli prese un braccio e lo portò sulla sua spalla, creando il varco per un abbraccio. Vi si tuffò.


Fecero all’amore nella loro stanza a cielo aperto.

Poi restarono a contare le stelle cadenti, bevendo birra fredda.

“Non posso restare, Alice”.

“Lo so”.

“Devo saldarmi, ancora un po’.”

“Ti aspetterò. Qui ne avremo di tempo.”


L’otto di Dicembre il sole non sorse: tutto era bianco, di neve e di cielo. Il Birrificio d’alta quota, con la sua insegna tinta di rosso, spiccava nel candore dello sfondo. Avrebbe aperto di lì a poche ore. La pubblicità era stata efficace: tutte le stanze erano prenotate e una lunga fila di persone, con ciaspole o scarponi, si snodava già dalla valle e per il bosco fino al campo rosso.

La terrazza ospitava ampi tavoli e panche, ciascuno con un numero inciso a pirografo. Un lungo bancone occupava completamente un lato della stanza centrale del rifugio, dal lato opposto della stube. Dalla parete, spuntavano una dozzina di spine di metallo, ciascuna etichettata con una targhetta in legno. Pile di boccali in vetro, con inciso lo stemma del rifugio (un piccolo palazzo stilizzato), traboccavano dai ripiani.

“Alice, ti vogliono di là per rivedere la gestione della cassa. Puoi venire?”

“Arrivo Miki, grazie. Puoi appendere tu la lavagna con la birra del giorno? L’abbiamo attaccata nella spina principale”.

Miki afferrò la targhetta e raggiunse la spina. Fece schioccare i meccanismi di blocco e, prima di fare dietrofront, la lucidò con il polsino della felpa.


C’era scritto: Il Tigre, Rauchbier.







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