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costanzabiasibetti

Capitolo 8 - Il bicchiere da ombra

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.





Capitolo 8

Il bicchiere da ombra


Aveva dimenticato la spazzola. Come aveva potuto dimenticare la spazzola?

Ok lasciarsi regalare le cose, ma ce n’erano di essenziali che ancora le stelle non le avevano recapitato.

Il Tigre era salito una volta alla settimana al rifugio e si era fermato ogni volta per una notte. Portava con sé le provviste: una cassetta di verdure, cibo in scatola, funghi essiccati e una borsa termica con alcune bistecche di manzo.

“Lo so che tuo padre non la voleva mangiare la carne, ma spero che tu sia più saggia di lui almeno in questo” - le aveva detto, sistemando la carne nel frigorifero.

La cucina del rifugio era vecchio stile, decisamente antica, ma aveva tutto quello che serviva per viverci comodamente e gestire un buon numero di commensali.


La prima settimana, era salito dal paese con una cassetta degli attrezzi e in mezza giornata di lavoro e parecchie canzoni italiane sussurrate aveva riparato la caldaia, regalando ad Alice l’immenso sollievo di non doversi più lavare con l’acqua scaldata su un catino.

I capelli li lavava ancora con l’acqua fredda, perchè tanto quello era il meno, davvero il meno.

Il Tigre le aveva portato un unico pezzo di sapone e usava quello per tutto, anche per lo shampoo. Alice tirava i capelli a phon praticamente tutte le sere quando viveva a Leeds. In rifugio, lasciava che si asciugassero al calore della stube, così com’erano dopo averli smossi con le dita. Restavano ondulati e vaporosi come la nebbia che si alzava piano dai prati al mattino.

“Ti stanno meglio così” - le aveva detto il Tigre.

E lei aveva sentito un brivido di soddisfazione percorrerle la spina dorsale.


Non parlava molto nemmeno lui. Si limitava ad aprire bocca per prenderla in giro.

O per insegnarle qualcosa in italiano.

Alice aveva ripulito una stanza al piano di sopra per il Tigre.

“Quale frase vuoi?” - gli aveva chiesto.

Lui aveva lasciato gli attrezzi accanto alla caldaia ed era salito a leggere ogni foglietto appeso alle porte delle stanze.

“Voglio questo” - aveva detto dopo qualche minuto.

“Che cosa dice?”

Tutto qui avanti posso vederlo e averlo, posso camminare sull’altopiano immenso del fiore rosso, posso andare leggera per caldi purpurei viali, posso averlo con me. E non morti siamo, non fantasmi, vivi noi camminiamo nel campo del fiore rosso. Vivi, vivi.”


“Allora, ci hai pensato cosa fare con questo posto?”

Il Tigre sorseggiava piano vino rosso, tanto liquoroso da impigliarsi nel vetro del bicchiere. “Questo è da ombre” - le aveva spiegato offrendole un bicchierino tozzo e piccolo.

“Non ancora, ci sto pensando” - aveva risposto Alice, guardando con disgusto il piccolo contenitore e ripensando ai boccali inglesi.

“Lo venderai?”

Il Tigre sembrava preoccupato. Non lo voleva dare a vedere, ma si sentiva.

“Non credo, non per ora. Credo mi inizi a piacere stare qui”.

“Sta arrivando l’inverno però, Alice. Qui la vita è dura se non sai come fare.”

E io non potrò esserci sempre.

Non l’aveva detto ma l’aveva fatto il silenzio per lui.

“Mi farò venire un’idea. Magari troverò qualcuno giù in paese. Ho visto i vecchi registri, per fortuna i numeri non hanno bisogno di traduzione, a quanto pare questo posto era una specie di pub di montagna… Magari potrei riaprirlo”.

Il Tigre non commentò, bevve un altro sorso di vino e si avvicinò alla stube per controllare il fuoco. Lo sportello di ferro era aranciato per il calore, ma il Tigre, assorto, per un istante sembrò scordarlo, e afferrò il metallo come se fosse la leva del cambio. Cacciò un urlo e ritrasse la mano, avvicinandola al petto.

“Cazzo!” - disse in italiano.

Alice corse a bagnare un canovaccio per medicare il Tigre.

“Non serve, davvero…”

“Sta buono”.

Gli arrotolò le maniche di flanella fino a sopra il gomito e posò su mano e polso il tessuto imbevuto. Il braccio del Tigre era ricoperto di arabeschi tatuati di nero, sembravano simboli di un rito antico o formule magiche inventate dai folletti.

“E questi?”

“Sono tatuaggi, non si vede?”

“Sì beh, ma cosa vogliono dire?”

“Nulla”.

“Nulla? Tu ti sei fatto incidere a sangue la carne e non è nulla?”

“Sarebbe troppo lunga da raccontare”.

“Tu provaci”.

“Un’altra volta. Forse”.

Ed allora era uscito fuori, sotto le stelle, per girarsi una sigaretta con una mano sola.

“Che cosa vuoi in cambio per raccontarmi dei tatuaggi?” - Alice era emersa da una nuvola di fumo aromatico accanto a lui, sedendosi lentamente sulla panchina fuori dal rifugio. Alla sera, le stelle, le guardava da lì.

“Ci penso.”

“Promesso?”

Il Tigre rise, ed aspirò con soddisfazione uno sbuffo di fumo.


La mattina dopo, quando Alice si svegliò, trovò il caffè caldo in un bricco sul tavolo e un biglietto del Tigre, scritto in inglese: “Io devo tornare in paese. Torno settimana prossima. Tu pensa a cosa vuoi fare. L’inverno sta arrivando”.


Alice uscì fuori e sedette nuovamente sulla panchina, le spalle strette in una coperta.

Guardava i prati e il campo rosso di fronte a lei, quando dalla nebbia che andava diradandosi emersero due figure in movimento.

Troppo lente per essere bestie.










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