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Capitolo 7 - Gli occhi

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.




Capitolo 7

Gli occhi


Ehi papà, sono io, Alice.

Provo a parlarti perchè mi sembra che da qui tu mi possa sentire, come se le montagne fossero le tue braccia rocciose e i pini del campo rosso i tuoi occhi.

Tu con gli occhi sapevi ascoltare. E non tutti lo sanno fare.

Non serviva che parlassi, nè tu nè io. Riuscivi a vedere le parole che non sapevo dire.

Sono quasi certa che fosse questo il motivo per cui tutti ti chiedevano aiuto: tu udivi con lo sguardo le loro grida di dolore, senza che loro neppure dicessero bah.


Spero davvero, papà, che tu abbia capito in silenzio anche che io avevo bisogno di te.

E che ne ho terribilmente, soprattutto ora, che sono qui al rifugio da ormai cinque giorni. Mi sembrano dei mesi, non ricordo più l’odore di Leeds e la sua pioggia autunnale è diventata questa sinfonia di bosco, di tempesta e di muschio dentro i polmoni, nelle ossa.

Il Tigre se n’è sceso in paese, ha detto che “aveva delle cose da fare”.

Ma che si ha da fare qui, che non sia fare legna e accendere il fuoco?


Questo posto parla più di me che di te.

Potrei fare qui la stessa vita che facevo a Leeds: sveglia, lavoro, passeggiata, cena, notte, incubi. Mi sembra che qui viaggiare non serva, qui nasci e qui resti, fino a morire.


E se io muoio…. lassù in montagna…

Il Tigre canticchiava una nenia in italiano che non mi esce più dal cervello e anche se non la capisco la ripeto, come un mantra. Mi sono pentita di molte cose in questi giorni, una è non averti chiesto di più su quelle parole che scrivevi in caratteri incomprensibili e parevano più arabeschi o schizzi d’inchiostro che lettere d’alfabeto.


“Queste sono come delle formule magiche, Alice, devi ripeterle ma è come se non le ripetessi per davvero. Ti permettono di scollare le cose della terra da quelle del cielo e di avvicinarti quanto più possibile alle stelle.”


Da qui vedo le stelle come non le avevo mai viste, neanche quella volta, in campeggio con te. Sai, ho riconosciuto Cassiopea e il Grande Carro, e poi ho provato a scaricare un’app per riuscire a ricordarmi tutte le costellazioni che mi indicavi tu, ma qui c’è solo un filo di rete e non si scarica niente, quel tanto che basta per ricevere i messaggi di mamma.

Le rispondo poco, adesso mi disturba. Come se questo tempo fosse solo mio, mio e tuo.

Il tempo che non abbiamo mai avuto e che mi stai regalando.


“Alle stelle devi parlare, Alice. Non serve con la voce, basta che ci parli con gli occhi”.

“Ma papà, come si fa a parlare con gli occhi?”


Fino ad ora, non ho mai parlato molto.

Non ho usato la voce ma non ho neanche usato gli occhi.

Me ne sono stata proprio zitta.

Di fronte a mamma che ti allontanava da me.

Di fronte a Margaret della quinta F che diceva che ero stata io a mettere in giro quella voce sul preside.

Di fronte a Mike che ha sempre pensato che potessi fare solo l’impiegata, nella vita, e che non riuscissi a gestire da sola i contatti con i fornitori.

Di fronte Wes e alla sua donna dei sogni, che continuava ad aspettare imperterrito mentre mi respirava il collo e si svegliava abbarbicato ai miei fianchi.

Sono stata zitta anche di fronte al destino.

Perchè lo sapevo che la proposta di lavoro a Londra, in quel birrificio artigianale, avrei dovuto perlomeno considerarla. Prenderla con me. Parlarci, anche solo a sguardi. E invece l’ho lasciata andare, perchè mi davano due spiccioli in meno, perchè ormai avevo comprato la casa.

Cos’è una casa? Quanto costa il silenzio delle mura?


Qui il silenzio è pieno di occhi.

Pieno di indizi.

La parte più oscura di me è felice che tu non ci sia più. Che tu abbia scosso la mia esistenza come uno tsunami e mi abbia fatto convocare al cospetto delle stelle, di fronte alla loro corte marziale, al giudizio universale.

Sono colpevole, lo ammetto.

Adesso lo so, che vivere non significa vivere davvero.

E che respirare non significa respirare davvero.

Bisogna volerlo, volerlo davvero.








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