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Capitolo 6 - Il rifugio

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.




Capitolo 6

Il rifugio


“Cammina leggera: la fatica della salita dà come un senso di gioia fisica, come di piacevole vittoria sul peso. Non pensare che sia per la giovinezza o per l’aria pura, in cui si mesce aroma di resine ed afrore di faggi; vuol dire invece che questo piacere di innalzarsi sulla valle, sulle case del paese, è certamente un sentimento divino verso il cielo, un sentimento ch’è in noi. Già presente.” [Giovanna Zangrandi]


Arrivarono al rifugio che il sole illuminava di rosa la pietra della montagna e il campo d’erba di sfumature rossastre.

“Lo chiamano il campo rosso” - le disse il Tigre, fermandosi a un centinaio di metri dalla struttura e posando a terra lo zaino - “siamo arrivati”.


Alice era accaldata e stremata, provava una strana sensazione, come se i polmoni fossero pieni di aria diversa, chimica quasi, come quella che gonfia i babbi natale danzanti fuori dai supermercati a dicembre.

Davanti a lei, c’era una casera di legno scuro con un ampio tetto a spiovente, intonacata di bianco su tutta la lunghezza del primo piano. I balconi rossi la facevano assomigliare ad una casetta delle favole, circondata com’era da un’ampia terrazza grezza che dava sul campo rosso. Non aveva mai visto nulla di simile in Inghilterra.


“Ok, e adesso?” - chiese Alice, sospirando.

“Adesso entriamo. Dovresti avere tu la chiave” - rispose il Tigre, sorridendo.

Era la prima volta che sorrideva, per davvero. Un sorriso di cuore, non sarcastico. Sembrava che fosse stato quel posto a tirarglielo fuori dall’anima, chissà dov’era rimasto impigliato per tutte quelle ore.

Alice schiuse la zip dello zaino da montagna e tirò fuori un chiavistello di metallo arrugginito che le aveva consegnato l’avvocato, al termine del loro incontro.

“Ma dentro non ci saranno gli orsi?”

“Qui non ci sono orsi! E poi mentre tu non c’eri, si sono presi grande cura di questo posto. In montagna è difficile lasciare andare le cose. Ci si mette talmente tanta fatica a farle che la rovina arriva solo come ultima possibilità.”


La rovina no, ma la sporcizia si. L’interno del rifugio era polveroso, l’odore di legno si mischiava a quello di stantio. Sembrava un unico enorme ambiente, separato da pareti posticce per creare alla buona stanze diverse. Nel centro, troneggiava una stube che in origine doveva essere stata bianca, ma ora era grigia di tempo e fuliggine.

“Io accendo il fuoco, tu se vuoi controlla la cucina, fa’ un giro panoramico”.

“Ma come, stiamo qui?”

“E sì, dove vuoi andare? Il sole è tramontato, fuori è notte. Qui arriva presto sai. Non pensavo fossi così lenta a salire”. Alice sbuffò.

Aveva ancora gocce di sudore freddo che le scendevano dall’attaccatura dei capelli. Il Tigre, invece, sembrava non aver fatto neanche un respiro di fatica, fresco come un bocciolo.

“E le stanze? Un bagno?”

“C’è tutto, va di sopra.”


C’era tutto. Per davvero. Ed era magico.

Alice iniziò a curiosare. C’erano molte stanze e stanzoni, con brande e letti a castello, piccoli comodini nati da sezioni di tronchi e specchi circolari appesi alle pareti. Alice si sedette su un letto e poi si lasciò cadere per traverso. La rete cigolava piano, come se stesse cantando. Si sentiva stranamente in pace. Leggera. L’abbaino sopra di lei lasciava entrare a sfioro l’ultimo raggio di sole, illuminando le pareti intagliate. Sembravano ghirigori geometrici, ma poi, guardandoli bene, Alice si accorse che erano dei disegni. Tutta la stanza aveva dei tatuaggi impressi nel legno, che solo la luce o la carezza delle mani avrebbero saputo estrarre dal silenzio del tempo.

C’erano dei fogli di carta, appesi con del nastro adesivo alle porte, come degli amuleti. Sembravano frasi di un libro o pagine di diario. Suo padre ne avrebbe analizzato la grafia, lei si limitò a passare di porta in porta per cercare di tradurli, ma erano scritti tutti in italiano. Ne staccò uno e scese al pianterreno.


Il Tigre stava guardando il fuoco neonato scoppiettare nella stube.

Si era tolto il berretto, e i riccioli gli erano ricaduti sul viso, illuminati dal riflesso caldo della fiamma.

“Me lo potresti tradurre?” - chiese Alice.

“Oh, hai trovato gli scritti di Giovanna. Tuo padre voleva dipingerli sulle porte, perché restassero sempre”.

“Chi è Giovanna?”

“E’ la donna che ha costruito questo posto.”

“Questo posto l’ha costruito una donna?”

“Oh sì, una donna incredibile ma sfortunatamente poco conosciuta. Si chiamava Alma Bevilacqua, ma quei pochi che se la ricordano la chiamano Giovanna Zangrandi. Era un’insegnante, lavorava a Cortina durante la seconda guerra mondiale. Siccome lei poteva muoversi senza destare troppi sospetti, era una spia per la resistenza italiana. Quando i tedeschi batterono in ritirata, i partigiani erano ricercati così qui alcuni di loro si nascosero in montagna. E questo posto lo costruì lei, nell’estate del 1946. Non chiedermi come questo posto sia arrivato nelle mani di tuo padre e poi nelle tue, perchè non ne ho la minima idea.”


Alice aveva arricciato il naso. Quel rifugio aveva un’anima e lei c’era entrata senza neanche chiedere il permesso.

“Comunque il biglietto dice così:


Per alcuni la roccia e la montagna sono una ragione etica, un mondo stupendo e inumano, dove cessano alcune delle schiavitù, il peso e generalmente anche il sesso, un regno superbo fuori dai fondovalle e dalle loro trappole, divise, regolamenti, sudicerie e rotture di coglioni. Così dicevamo, sfottendo e ignorando le ragioni vere della nostra passione. Avevo già dentro di me il germe della passione irrazionale, quella che ti lega a qualcosa come un’alchimia, e a nulla sarebbero valse le contestazioni e le paure di mia madre."


“Anche mia madre ha paura.”

“Di cosa?”

“Oh, di tutto. Non sai che scenata quando le ho detto che volevo venire qui, a vedere il rifugio. Ma io credo che questo posto mi piaccia, sì, credo davvero che sia stupendo”.

“Ti sta nascendo il germe della passione?” - ridacchiò il Tigre.

“Forse c’è sempre stato.”






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