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Capitolo 3 - La porta piccola

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.



Capitolo 3

La porta piccola


L’autobus partì puntualissimo, alle 5.43 del mattino.

Uno strato di ghiaccio ricopriva i finestrini e dall’interno l’impressione era più quella di attraversare un vortice spazio-temporale nei toni del verde piuttosto che la quieta ed intransigente campagna inglese. Sembrava che si volesse ribellare, tutta impiastricciata nelle crepe trasparenti.

Alice aveva deciso che quel viaggio l’avrebbe fatto alla maniera di suo padre.

“Sai Alice, il trucco è partire sempre con la stessa valigia, dovunque tu debba andare. Indonesia, Australia, Grecia: tu porta sempre l’indispensabile. Poi il resto lascia che te lo regali il posto in cui andrai.”

Il look di suo padre era sempre stato assurdo. Mischiava caftani e tute in acetato, t-shirt in cotone variopinto e giacche di completo italiane. Prue aveva sempre definito il suo uno stile “strambo”, ma in fondo non riusciva ad ammettere a se stessa che quell’uomo, nonostante la mezza età, stesse bene con qualsiasi indumento.

Nella cappelliera sopra la testa di Alice, c’era solo lo zaino da montagna che Michele le aveva regalato per il suo tredicesimo compleanno. Il resto, se lo sarebbe fatta regalare.


L’aereo atterrò a Venezia alle cinque del pomeriggio. L’aria era gelida e le luci del tramonto si erano già spente, inghiottite dalla notte.

“Alla faccia del clima mite” - sussurrò piano Alice, cercando di stringersi nel giaccone. La donna in attesa davanti a lei, irlandese dai lineamenti e dal colore dei capelli, le rispose con un altro sussurro: “questa è la laguna, mia cara, ed è tutto tranne che mite”.


Agli arrivi Europei c’era un tassista ad attenderla. Teneva tra le mani un cartello sul quale aveva scritto il suo nome a mano, con un carattere traballante.

Suo padre avrebbe di sicuro detto: “quella grafia non può che appartenere ad un uomo in profonda ricerca della verità, figliolo. Le vedi quelle elle tutte bitorzulute? No, la elle deve essere liscia, curva e panciuta come il fianco di una donna italiana. Parliamo di tua madre, figliolo, che tipa era?”

Le sembrava di sentirlo.

Alice rise di gusto dinanzi al tassista che continuava a fissarla sconcertato.

Con suo padre accanto, era quasi certo incorrere in simili conversazioni imbarazzanti. Qualche anno prima, a Londra, loro due stavano bevendo una birra in un pub, quando Michele aveva iniziato ad analizzare la grafia con cui era scritto il menù delle spine su uno specchio. Quando suo padre aveva tirato in ballo gli orientamenti sessuali del barista (“non è un problema, davvero, se ti piacciono sia gli uomini che le donne, insomma è normale!”) Alice l’aveva preso sottobraccio e l’aveva tirato letteralmente fuori dal pub.

Michele Dal Farra era un accanito sostenitore della grafologia; nel ‘73 aveva pubblicato un manuale che legava la psicologia della scrittura a quella degli astri.

Era convinto che nelle stelle fosse scritto tutto della vita degli uomini.

Ma che loro, le stelle, fossero tanto miti e pacifiche da non rovinare il finale a nessuno e da limitarsi a rispondere a quanti domandassero, con fiducia, il loro parere lucente.

Senza imporlo.


“Le recupero i bagagli?”

“Non serve”.


L’autostrada che da Venezia porta a Cortina ad un certo punto si interrompe.

E’ lì come per dirti: ehi, se per davvero vuoi raggiungermi, devi avventurarti per strade strette e gallerie. Devi entrare per la porta piccola.


L’avvocato le aveva prenotato una stanza singola in un albergo poco fuori dal centro. Era uno di quei vecchi hotel anni ‘70 che poco alla volta i proprietari tentavano di rimodernare, ricoprendo i mobili vecchi di vasi di fiori, cuscini e appendendo alle pareti opere d’arte contemporanea. La stanza, nonostante il mash-up, era accogliente. Le sembrava di essere in uno di quei film di natale ambientati nelle baite. Prese sonno non appena la sua testa sfiorò il cuscino.


Il giorno dopo, l’avvocato l’attendeva nel suo ufficio. Alice decise di andarci a piedi, Google Maps le dava 40 minuti di cammino. Non era ancora alta stagione turistica, ma Cortina sembrava non accorgersene. Vetrine illuminate e caffè con sedie e tavolini all’aperto invitavano le persone a dedicarsi del tempo. Si ripromise che si sarebbe fermata, dopo l’appuntamento.

L’avvocato aveva lo studio al secondo piano di un edificio tirolese. Sotto di lui, un rimessaggio di gatti delle nevi e il laboratorio di uno scultore del legno.

“Ne vuole vedere una?” - un bambino si rivolse ad Alice in italiano. Stava giocando accanto al basculante aperto del laboratorio con delle cortecce di legno, ed intrecciandole ne stava facendo una torre. “Mi spiace, piccolo, non capisco”. “My name is Carlo”. Alice sorrise ed inspirò l’odore fresco di legno e segatura.


“La proprietà è un rifugio, situato qui, vede?”

Era proprio vero, quell’avvocato parlava un inglese terribile. Le stava mostrando un punto su una cartina geografica piena di curve e linee colorate, di cui Alice non capiva assolutamente nulla. “Non sappiamo in che situazione versi l’edificio, è stato costruito negli anni ‘50 del Novecento dai partigiani che, nel primo dopoguerra, si nascosero sulle montagne per scappare alla ritirata e poi restarono.”

“Come ne è entrato in possesso mio padre?”

“Credo l’abbia ereditato dalla madre. Ma non si è espresso in maniera chiara su questo punto. In questa cartellina troverà tutti gli incartamenti riferiti alla proprietà, io sarò a sua disposizione per supportarla con tutta la burocrazia, nel caso volesse venderla.”

“Non so ancora cosa ne farò. Vorrei vederla, per prima cosa”.

“Suo padre me l’aveva preannunciato. Per questo ha organizzato lui la visita, lasciando disposizioni precise. Il Tigre verrà a prenderla nel pomeriggio”.

“Il Tigre?”

“Chiedo scusa, la persona incaricata da suo padre per mostrarle la proprietà.”

“E si chiama Tigre?”

“Se vuole sapere la verità, signorina Dal Farra, non sono sicuro di sapere quale sia il nome reale del Tigre. Qui a Cortina lo chiamiamo così da sempre”.




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