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Capitolo 19 - Il generatore

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.

In dolce memoria di Marta Gori.





Capitolo 19

Il generatore


Contemplare una rinascita non è affare di poco conto.

Obbliga a raccogliere i cocci, tutti quanti, anche quelli più piccoli, a riprendere in mano il progetto iniziale e a scovare la falla nel piano.

E se non si trova, bisogna cercare ancora. E ancora. E ancora. Finché non salta fuori.


Alice aveva passato tre giorni e tre notti a fare la conta dei superstiti.

Tini, bollitori, barili, i malti, i luppoli, le bacche che il Tigre aveva selezionato fino allo sfinimento, separando quelle troppo aspre dalle dolci come in un gioco di biglie.

Parlava solo a monosillabi o facendo sì e no con la testa.

Non mangiava. Dormiva accanto alla stube, su una vecchia poltrona.


L’avvocato non le aveva garantito nuovi fondi di costruzione e sistemazione. Gli addetti della loro assicurazione facevano storie, “era possibile che accadesse, perché non ci avete pensato prima?” - dicevano.

Perchè Alice era arrivata da pochi mesi, e non sapeva nulla del meteo di montagna, né dei temporali di primavera che spazzano via generale inverno a caro, carissimo prezzo.

Perché aveva scelto l’architetto che preferiva anche se non sapeva nulla neppure lui delle Dolomiti. Perché era stata trapiantata su un vaso troppo grande e le sue radici, per quanto speranzose, si erano perse in tutto quell’oceano di terriccio.

Nella sua testa, tutti i perché del mondo lottavano per essere il prescelto.


Sei giorni dopo la tempesta, Alice volle tornare a dormire sul suo letto.

La stanza era ancora sventrata dal vento e dai rami, che stavano ammucchiati in un cantuccio.

Quello era l’unico posto che al rifugio aveva riservato solo per se stessa.

Uno spazio incontaminato.

Si sedette sul letto, che cigolò piano sotto il suo peso. Era umido e freddo, nonostante Ralf avesse rattoppato la finestra con un grande cartone.

Alice tolse gli scarponcini. Aveva fatto asciugare calzini e maglione accanto alla stube nei giorni precedenti, ma il tessuto era ancora rigido e impregnato di pioggia. Le dita dei piedi, liberate da quella costrizione, diventarono improvvisamente rosse vermiglie.

Era da tantissimo tempo che non si guardava i piedi. Si era scordata di averli.

Erano scontati nella sua vita. Come fino ad allora aveva dato per scontato il Tigre.

E anche il Birrificio.


Si lasciò cadere sul copriletto, nella completa oscurità.

Alice odiava il buio. Al liceo, durante una festa tra ragazzi, l’avevano chiusa per scherzo nell’armadio di Nancy Pong per tirarla fuori solo venti minuti più tardi. Non era mai più riuscita a restare sola e chiusa in uno spazio oscuro.

Ma la luce non c'era. L’elettricità mancava ancora al rifugio. La tempesta aveva danneggiato l’impianto che Miki e Ralf ancora non erano riusciti a sistemare, nonostante il loro sapere pratico quasi illimitato. Avevano quindi rimesso in funzione il generatore: un vecchio congegno degli anni Settanta a benzina che ronzava come un battello a vapore permettendo di accendere solamente due lampadine (e mai in contemporanea). Lo mettevano in funzione la sera, dopo cena, per due o tre ore, il tempo necessario per ricaricare telefoni, pc, e scrivere mail e richieste di supporto a destra e a manca.

Poi lo spegnevano, tornava il silenzio. E anche il buio.


Alice si fece aiutare dalle fessure nel cartone per raggiungere la finestra e sfilò la copertura posticcia. La stanza fu inondata dalla luce della notte.

La tempesta aveva trascinato via con sé tutte le piogge di primavera, regalando al campo rosso delle stellate totalizzanti, nude, senza ritegno.

Alice non era mai uscita a vederle, nonostante Miki e Ralf l’avessero chiamata più volte per avere dei chiarimenti su alcune costellazioni che avevano sentito nominare chissà dove: “ma esiste per davvero la costellazione della birra?”


Alice spinse il letto sotto la finestra, si accoccolò sotto le coperte ancora vestita e lasciò che il vento freddo della notte la avvolgesse. Non le avrebbe fatto del male.

“Allora, stellacce mie, sembra che mi abbiate rovinato i piani sul più bello: che dovrei fare adesso, eh? Dovevate proprio distruggere tutto? Dovevate proprio mandarlo via?”


Una stella cadente incise il cielo di luce, il tempo di un soffio e già la sua scia si era esaurita. Alice continuò con lo sguardo la sua traiettoria finchè non intercettò il Palazzo intagliato nella parete della sua stanza. Sembrava in rilievo, tanto vicino ad Alice che avrebbe potuto entrarci con la testa.

“Sapevo che non avrei dovuto fidarmi di te, papà” - disse ad alta voce.

Poi sorrise.


L’indomani, preparò per sè e gli austriaci una colazione di uova strapazzate e salame cotto sulla brace. “Così possiamo berci insieme la birra e non il caffellatte” - aveva motivato Alice.

Si misero al lavoro subito dopo.

“Ripartiremo. Ricostruiremo. La falla l’ho trovata”.


Nonostante l’architetto le avesse offerto un passaggio per Cortina, decise di scendere a piedi per il bosco. Al limitare del campo rosso, la tempesta non aveva incredibilmente sradicato la vasca di legno che il Tigre aveva iniziato a costruire e mai concluso. Alice sfiorò i nodi piallati dei travetti e le linee incise come tatuaggi che ne stabilivano l’età con precisione millimetrica. Che fossero i primi o gli ultimi anni della loro vita, questo nessuno l’avrebbe mai saputo stabilire. Ma faceva parte del gioco.


Arrivò all’hotel della sua prima notte in Italia, nel centro di Cortina, dopo svariate ore di cammino e un passaggio decisamente fortunoso. Entrò lasciando a terra nel marmo della hall una costellazione di fango e sassi. Poggiò i gomiti sul bancone, attirando l’attenzione della signora della reception. Era la stessa che l’aveva accolta, mesi prima.

“Ho bisogno di sapere come contattare Il Tigre” - disse con il tono più calmo che il suo italiano neonato le consentiva.

“Mi dispiace, signora, non lo vediamo da un bel po’. Non avendo un cellulare, veniva sempre lui a proporsi ai nostri clienti per i corsi di sci. Ma quest’anno a Natale non si è fatto vedere. Mi hanno detto che aveva ripreso con il vecchio lavoro di chimico…”

“Lei sa dove lavorava prima?” - Alice aveva ripreso a parlare inglese senza neppure accorgersene.

Dovette ripetere più volte la frase per dare il tempo alla signora della reception di comprenderne il significato.

“Credo fosse di Milano. E’ qui a Cortina da non molti anni, ma si è subito fatto volere bene dalla gente di qui che, a dirla tutta, non è la più affabile del mondo. Stava sempre con Dal Farra…”

“Dal Farra?”

“Sì, signora, un nostro decisamente atipico concittadino. Se l’era portato dietro da un viaggio in Cina, credo, o qualcosa di simile. Erano sempre insieme. Dapprima il Tigre non parlava mai, era rimasto traumatizzato da un certo fattaccio, ma poi poco alla volta si è mollato, come se Dal Farra gli facesse delle specie di magie…”


La signora non aveva riconosciuto nella montanara straniera che aveva davanti la donna inglese sperduta che aveva alloggiato all’hotel mesi prima. E sicuramente non avrebbe potuto collegare che fosse la figlia del decisamente atipico concittadino Michele Dal Farra.


“Che tipo di fattaccio?”

Se la signora della reception avesse ricevuto un invito a nozze, sarebbe stata meno felice per quello che per la domanda di Alice. In un rapido lavoro di taglia e cuci, ricamò la cronistoria di un chimico visionario lombardo che aveva spinto un dipendente al suicidio. Tra le mani, il suicida, portava stretto un foglio con il nome del capo, il che aveva spinto gli inquirenti ad aprire un processo immediato.


Alice uscì dall’albergo molti dettagli più tardi, con il cuore che le ruggiva nel petto.

Non riusciva a provare pietà per il Tigre, ma solo una rabbia furente per quell’uomo che suo padre aveva rimesso in piedi e che l’aveva lasciata sola nel momento del bisogno per una ridicola corteccia di passato.






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