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Capitolo 18 - La Tempesta

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.

In dolce memoria di Marta Gori.





Capitolo 18

La Tempesta


«Se con la vostra arte, amatissimo padre, avete sollevato quest'urlo dalle onde selvagge,

ora calmatele. Sembra che l'aria voglia rovesciare fetida pece, ma che il mare, alzandosi fino al volto del cielo, ne attenui il fuoco.»


- William Shakespeare, The Tempest -


Una bava di vento gelido aveva preannunciato il suo arrivo.

Il cielo s’era fatto oscuro già alle tre del pomeriggio, pieno di masse dense e spumose come palle di neve sporca e scurita.

Non pioveva. Non ancora.

Sembrava che una pellicola trasparente trattenesse il treno di nuvole sopra la valle, oltre le montagne, mentre scalpitava sbuffando e cercando il modo di infrangerla a spintoni.


La tempesta giunse attesa e preannunciata.

L’annuncio, almeno alla maggior parte degli uomini, rende gli eventi meno spaventosi.

Non per tutti. Ci sono alcuni che preferiscono non sapere ed affrontare il domani a occhi chiusi, come se ogni sfida fosse la finale della coppa del mondo con un avversario sconosciuto.

Quella tempesta, benché attesta e preannunciata, fu diversa. Spavalda.

Non guardò in faccia nessuno: iniziò a sussurrare su in montagna, tuonando e scalpitando forte, per scendere a valle più veloce della luce. Gli alberi provavano ad ostacolarla, ma lei li ignorava, piegandoli al suo volere di novanta gradi, soggiogandoli come si fa con gli schiavi.


Era infuriata, sbuffava sul campo rosso e faceva sbattere fino alla corrosione i balconi del rifugio.

Miki e Ralf erano corsi al nuovo magazzino, appena costruito. I lavori non erano ancora ultimati, i muratori avevano coperto le struttura posticcia con dei grandi teloni blu, ma essi erano già volati via, come velieri nel vento. Gli Austriaci si tenevano aggrappati ai tini e alle cassette dei malti con tutta la forza che avevano; facendo scudo con il corpo, le portavano dentro, alla stube, nella struttura centrale del rifugio, sperando di salvarle.


Sembrava che dicesse, la tempesta: “hai osato troppo”.

Alice correva bagnata fradicia lungo il perimetro del magazzino. Il vento l’aveva scoperchiato come una lattina di conserva, allagando provviste, macchinari, tutte le nuove forniture scelte con cura. Sembrava che una furia impazzita si fosse risvegliata quella sera, al campo rosso.

Il lato ovest e sud del rifugio ricevettero i colpi più forti: frasche appuntite vorticando nell’aria come lance fecero schioccare i vetri alle finestre, inondando di rovina anche le stanze intagliate.


La tempesta imperversò per tutta la notte e poi, all’alba, si quietò.

Gli alberi si raddrizzarono zoppicando sbilenchi.

La guerra era finita, i soldati potevano rientrare dal fronte.

Miki e Ralf fumavano seduti fuori dal rifugio, esausti. Alice guardava il campo rosso imbambolata, stretta in una coperta, con i capelli ancora appiccicati alle guance come alghe.

Avevano perso gran parte del lavoro dei mesi passati.

Se n’era andato in una notte, con uno sbuffo di vento, come se non fosse mai esistito.


Quando ritrovò il coraggio, salì su nella sua camera.

La porta era spalancata. Ovunque c’erano fogli d’appunti sparpagliati, frammenti delle veline in cui aveva ricalcato gli intarsi delle pareti, vestiti, pigne, aghi, pezzi di legno e frammenti del vetro delle finestre.

I suoi sogni si erano infranti quella notte, tutti quanti.





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