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Capitolo 17 - Il palazzo dell'Ovest

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.

In dolce memoria di Marta Gori.




Capitolo 17

Il palazzo dell'Ovest


Non credere che non me ne sia accorta, Tigre.

Si vede a un miglio che vorresti scotennare Wes e farti una sciarpa con il suo scalpo inglese. Magari puoi darla a bere a Miki e Ralf, anche perché loro non ti guardano mai negli occhi, con tutti i barili che continuano a trasportare ogni giorno fino al magazzino.

Vorrei trovare il tempo di ringraziarti, di farlo bene, ma sembra che mille cose mi rapiscano, in questi giorni. I pannelli solari, il nuovo tetto, le paure dell’architetto, Wes e le sue idee pubblicitarie...

Non averla a male, non è un cattivo uomo. Non è lui che mi ha fatto del male, me ne sono fatta io e lui era solo uno strumento.

Non sta bene, qui. Fa troppo freddo per lui e io mi sto divertendo da pazzi a punzecchiarlo. Ma senza esagerare, non vuole denaro per quello che sta facendo per me, per il birrificio, e lui nel suo campo è una specie di genio.

Almeno per quello che ne capisco io.

Nelle pubblicità serve fantasia, e lui ne ha sempre avuta, anche troppa.

Io e te, Tigre, siamo fatti di scienza, di numeri e di calcoli.

Ci viene facile ragionare, un po’ meno sognare.


Mi mancano le nostre sere a guardare le stelle.

Ho provato a raggiungerti, qualche volta, ma tutti questi conti che spesso non tornano, i preparativi, le falle nel piano, mi hanno avvolta come una preda nella bava di ragno.


Diciamo che neanche Wes mi ha dato molto scampo, voi due vi siete dichiarati guerra e continuate a sfidarvi in battaglie assurde ed assolutamente infantili.

Sembrate due bambini che giocano a rubabandiera.


Per un attimo, speravo ricordaste che avete tutti quasi quarant’anni e che abbiamo un progetto da ultimare, un sogno da perseguire.

Per la prima volta nella mia vita, mi sento utile a qualcosa. Mi sento pronta. E non saranno certo i vostri capricci ad impedirmi di raggiungere il mio obiettivo.


Vorrei chiederti se da qualche parte, nelle stelle, c’è scritto qualcosa.

Se in quegli intagli di cui il rifugio è pieno c’è indicato il mio nome.

Mi sono chiesta molte volte chi li avesse fatti. Sembrano recenti, il legno profuma ancora di resina come se fosse stato tagliato da poco. Una parte di me, vorrebbe che in quelle sfese ci fosse la mano di mio padre. L’altra metà di me ne ha una paura indescrivibile, perché chissà quale missione ci sarebbe inscritta da portare a compimento. Come potrei mai, io, buona a nulla professionista da una vita, capire e realizzare una missione scritta nel legno?


“Non esistono montagne troppo difficili da scalare, Alice. Ci sono solo tempi ed allenamenti giusti oppure no per raggiungere le cime”.

- Così mi aveva risposto mio padre, quando gli avevo chiesto via mail se non fosse impazzito a voler scalare il Monte Rosa con una spedizione di sherpa.


Li ho trascritti tutti, i disegni. Mi ha aiutato l’architetto, regalandomi delle immense veline che usa per i grandi progetti. Ho attaccato i fogli alle pareti con del nastro di carta e ho ripassato ogni intaglio con un carboncino.

In tutto il rifugio, ce ne sono 28, 7 per ogni lato. E’ difficile intuire se siano semplici ghirigori o qualcosa di più, ma mi è sembrato di vederci un palazzo, con guglie, bandiere e pinnacoli. In quello della mia stanza (che ho scelto perchè è quella da cui si vede il sole tramontare) c’è una grande tigre intagliata sulla torre più alta. Sembra che mi guardi, che mi protegga.


Non so che significato possano avere, ho bisogno di tempo per pensarci, per parlarne con te. Ma prima devo sistemare questa cosa, devo sistemare Wes.

Pensa che io sia la stessa Alice che è scappata dal birrificio, sei mesi fa.

Ma non lo sono più, forse dal giorno in cui ho messo piede in Italia.

Lui è parte del mio passato, adesso.

E il mio futuro, invece, è intagliato qui, nelle pareti di questo birrificio, nel palazzo di una Tigre. Nel tuo palazzo, magari.


Dirlo a Wes è stato più semplice del previsto.

Pensavo che non mi avrebbe mai lasciato uscire dalla cucina o che si sarebbe messo a piangere perchè insomma, per riconquistarmi era venuto fin qui.

Invece l’aveva già capito, aveva capito tutto.

Mi ha abbracciata, mi ha dato un bacio che diceva “Addio, Alice, sei sempre stata tu ma ora è troppo tardi”. Ed era già tardi.


Ti ho cercato per tutte le stanze del rifugio, in magazzino, nell’area nuova, tra i tini di bollitura, nel bosco. Ho urlato il tuo nome più forte dei ruggiti della tempesta.

Ma tu te n’eri già andato.


Sopra la collina del campo rosso c’è una specie di piscina di legno. So che l’hai costruita tu, ci lavori da settimane piallando e abbozzando disegni sui tovaglioli di carta.


Ora è vuota di te e piena dell’acqua della tempesta.



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