top of page
costanzabiasibetti

Capitolo 10 - Lo sciamano

Anche le Stelle bevono Birra

Liberamente tratto dall’esperienza di Giovanna Zangrandi.





Capitolo 10

Lo sciamano


Il ritmo del tamburo incalza:

rimbomba nelle tempie,

scende nei polmoni,

aumenta la cadenza dei respiri.

E più aumenta più la stanza si riempie del fumo dell’incenso, di voci e di canti, e il corpo dello sciamano inizia a scuotersi, a sobbalzare, il copricapo di penne di pavone si muove come se l’uccello stesse prendendo il volo.

In un ritmo convulso, dissonante e disordinato, l’aria si paralizza, si congela il tempo.

Lo sciamano alza una mano in direzione del cielo e con l’altra si inginocchia e tocca il pavimento: sembra voglia legare la terra con il cosmo.

Lo fa, li lega insieme, poi s’accartoccia e tutti i suoi muscoli si accartocciano con lui,

come se fossero d’argilla e l’argilla sotto il sole si seccasse.

Il rito termina con il tamburo che si spegne, poco a poco, come un cuore che smette consapevolmente di battere.

Lo sciamano si lascia cadere a terra, sfinito.

Tutti i partecipanti gli si fanno accanto, gli sfiorano un braccio, una gamba, una piuma del copricapo. Solo uno resta in disparte, un uomo, in un angolo della stanza, si abbraccia le ginocchia e continua ad ondeggiare ad occhi chiusi, e il tamburo batte ancora, dentro di lui. Lo sciamano se ne accorge e allora invita tutti a fare silenzio, a lasciare che il cosmo indichi la strada.


“Chi è quell’uomo?”

Michele aveva imparato il nepalese molti anni prima e ormai lo padroneggiava con sicurezza, riuscendo ad esprimere emozioni e anche a cantare. Parlava sottovoce con Hari, lo sciamano, mentre lo aiutava a riporre i tamburi e le brocche usati durante il rituale.

“L’ha portato qui Kamal, tempo fa. Deve essere italiano o europeo, come te. Avete gli stessi lineamenti. Kamal l’ha trovato al King Mahindra Trust Hospital, volevano mandarlo via perché non aveva niente, perlomeno dal punto di vista clinico.”

“E allora cos’ha?” - Michele aveva smesso di sfiorare il metallo della brocca e fissava quell’uomo biondo, che un tempo doveva essere stato grande e forte, ma che ora era l’ombra di se stesso, magro, incavato.

“E’ anche per questo che ti ho voluto qui, Michele. Credo che tu potresti essergli utile.”

“Io? Ma se non riesci tu con la tua saggezza, Hari, come posso riuscirci io?”

“Oh non l’ho deciso io, lo so che sono più saggio di te - risero entrambi - me l’hanno detto le stelle”.


Michele Dal Farra cercava almeno una volta ogni due anni di tornare in Nepal.

Era una specie di necessità dell’anima.

Aveva conosciuto Hari in uno dei primi trekking sull’Himalaya aperti ai non alpinisti, vent’anni prima. Hari Bhahadur Jhakri, di etnia Tamang, era uno dei guaritori più potenti di Kathmandu. Aveva accolto nella sua casa Michele chiamandolo per nome, senza che lui si fosse presentato. Hari l’aveva invitato in montagna.


“Ho visto il tuo volto nella foresta, molti anni fa” - gli aveva detto in nepalese tra le nevi perenni, e Michele, pur non conoscendo la lingua, aveva compreso ogni parola. “Eri tutto luminoso, tutto d’oro, come una stella, e avevi tra le mani un thurmi d’oro. Quella notte dormimmo insieme nella foresta e sognai che saresti stato un jhakri, uno sciamano, anche tu.”

Tornati a Kathmandu, Michele si era fermato a casa di Hari per mesi e aveva imparato da lui ogni cosa: canti, rituali, gesti salvifici e danze cosmiche. Non era un lavoro per lui, era una missione sacra quella di far ritrovare agli uomini la loro anima, dispersa in chissà quale angolo della loro vita distrutta.


“Sappiamo come si chiama?”

“Credo tu non debba saperlo per forza. Ma credo sia necessario che tu sappia che deve espiare una colpa. Il suo cuore pesa come un macigno e lo trattiene nella melma e nel fango, senza dargli pace”- disse Hari.


Michele si avvicinò all’uomo, ancora immobile all’angolo della stanza.

Solo quando fu vicinissimo, l’uomo alzò lo sguardo, le guance rigate di lacrime.

Michele gli prese la mano. Sul dorso, scorse il tatuaggio di una tigre.

E seppe che doveva parlargli in italiano.

“Tigre, sta tranquillo. Ce la faremo a venirne fuori. Ce la farai”.












33 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page